Tutto questo niente sarà tuo

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Tutto questo niente sarà tuo

“Desideriamo quello che vediamo
E a volte desideriamo solo di essere visti
Pensiamo che quello che ci serva sia fuori da noi
Mentre quello di cui abbiamo davvero bisogno è invisibile
Butta fuori i tuoi pensieri o finiranno per ucciderti
”.

(Marracash)

di Giovanni Di Muoio

Il rumore di quei passi gli era familiare. Più di una volta aveva giocato a indovinare la fisionomia, il portamento, persino il colore della cravatta del nuovo arrivato. Era un momento che viveva con un certo distacco, meglio forse chiamarlo col vero nome, disincanto. Complici i troppi anni trascorsi con l’illusione di essere l’ingranaggio insostituibile di un motore perfetto, mai fuori giri. Il futuro non lo aveva mai spaventato. Sapeva che un giorno sarebbe arrivato ma era certo che non avrebbe puntato il dito contro di lui. L’ultimo giorno di lavoro era cerchiato in rosso in uno di quei calendari da tavolo che reclamizzavano una delle tante sigle sindacali. Li lasciavano sulle scrivanie gli ultimi giorni dell’anno e servivano a tenere la contabilità del tempo e a ricordare ai lavoratori che loro erano lì, nel caso ce ne fosse bisogno. La sua era una cassettiera grigia, una di quelle anonime senza la chiave persa chissà dove e che conteneva un mucchio di cose inutili. Quel poco che gli occorreva era nel primo cassetto mentre negli altri due col tempo si erano sedimentati tutti gli oggetti che non era riuscito a catalogare, una sorta di varie ed eventuali, appendice generalista dell’ordine del giorno di una comunissima assemblea di condominio. C’era ai piedi della sua postazione uno scatolone col suo cognome e basta, dentro, da inventariare, ci sarebbe finito tutto il suo passato. Gli sembrò qualcosa di infinitamente piccolo rispetto ai quaranta e più anni passati in Azienda ma quel pensiero fu interrotto dal materializzarsi di fronte a lui di un giovincello che sfiorava la trentina, l’espressione smarrita di chi non ha ancora realizzato dove sia capitato. Aveva un mucchio di carte in mano, le aveva firmate pochi minuti prima alla presenza di un HR Manager che ne aveva storpiato il cognome più volte sbagliando sistematicamente l’accento scusandosi ogni volta ma reiterando l’errore fino a farlo sembrare un fatto normale. Avrebbe occupato proprio quella scrivania, un passaggio di testimone tra due generazioni, chi viene e chi va. Si guardarono negli occhi e non si dissero nulla perchè forse non c’era davvero nulla da dirsi. C’era tra loro una distanza siderale ma forse solo all’apparenza perchè con un po’ di buon senso e tanta buona volontà avrebbero potuto imbastire uno straccio di comunicazione, magari con qualcuno a svolgere il compito di facilitatore per ridurre quella distanza e scambiarsi esperienze come si fa con le figurine dei calciatori. Invece l’imbarazzo del non sapere cosa fare era stampato con inchiostro invisibile sulle pareti stinte di quel casermone reso ancora più angosciante dall’indifferenza degli altri, di quelli che non alzavano gli occhi dallo schermo ma che sentivano tutto e percepivano ogni cosa ma senza darlo a vedere come se mantenere quella riservatezza glaciale facesse loro guadagnare punteggio nel processo di redenzione di chi anela a sedersi, un giorno, alla destra di un padre che si prende cura di te come si fa con il pesce rosso dentro la boccia di vetro. Siamo polvere pensò. La stessa che ricopre il nostro passato, il segno del tempo che si sbriciola tra le mani, esistenze friabili come grissini. Si fermò a guardare i suoi colleghi, quelli con i quali aveva condiviso diecimila caffè e pensò che non meritavano nulla, nemmeno un rinfresco in sala riunioni. Benedisse il distanziamento come un fatto salvifico e anche le mascherine dietro le quali si nascondeva l’ipocrisia di un’esistenza votata alla convenienza, all’apparire senza essere. Di fronte a lui gli occhi di un cerbiatto smarrito guardavano altrove, dietro i vetri di un finestrone con vista cimiteriale, la città morta, le sue anime in pena, il rumore di un treno che sferraglia  per chissà dove. Il suo si era fermato proprio lì, biglietto di sola andata. E ora sono uno di fronte all’altro che dovrebbero mischiare le loro vite come un mazzo di carte e invece  aspettano la fine del film, i titoli di coda, le luci che illuminano la sala e l’alba di un giorno nuovo. Si presentarono senza nemmeno sfiorarsi con l’imbarazzo di chi la vita vuole prenderla a morsi e che invece la centellina come si fa col whisky sul fondo del tumbler. Finirono per sciogliersi nel confessionale che aveva le fattezze di una macchina di improbabili sputa bevande dove la parola caffè era da considerare un miraggio, un’illusione ottica e olfattiva. Il passaggio di consegne si formalizzò con con la consegna della chiavetta, dentro c’erano ancora 3 euro e 15 centesimi. Il ragazzo ringraziò e si offrì di aiutarlo nell’ipotesi volesse una consulenza per poter finalmente aprire un profilo Instagram dove pubblicare le foto delle sue tanto amate api. Parlarono di lavoro come fosse un riempitivo, qualcosa che serviva a colmare dei vuoti esistenziali. Non gli diedero troppa importanza consapevoli, entrambi, che la strada della conoscenza è come un sentiero che prende forma per il solo fatto che prima di te lo hanno calpestato milioni di scarpe, alcune anche di buona fattura, magari artigianali. La serialità sedimenta esperienze ma non le valorizza. Fare le cose. Un mantra che avava scandito le giornate dell’esodato come il meridiano di Greenwich. Ci sono molti modi per manifestare l’amarezza. Uno è quello di ingoiare la saliva e scoprire che in fondo ha il sapore della sconfitta, di una ribellione a stento immaginata ma alla quale non si è mai creduto fino in fondo e questo perchè, dall’altra parte nessun visionario si fosse mai preso la briga di afferrarlo per il bavero della camicia per dirgli che non occorre fare le cose ma cambiarle. Quella serena soddisfazione che si prova quando alimenti la stampante con una risma nuova. Questo e poco altro gli mancherà quando realizzerà di non aver contribuito a cambiare nulla obbediente a chi gli diceva, per proprio tornaconto, che non c’era nulla da cambiare o nella migliore delle ipotesi che il cambiamento poteva aspettare un domani migliore. Migliore di chi? Di lui sicuramente di cui si parla con frasi di circostanza del tipo “sono sempre i migliori quelli che se ne vanno”. E allora il migliore se ne va davvero e non si volta indietro se non per salutare quel ragazzo impaurito, assunto per dare continuità al suo lavoro. Riuscirà a cambiare le cose? Probabilmente no. Ma cambierà lui, i suoi ideali, la sua idea di rivoluzione che lo porterà a chiedersi di chi posso fidarmi per davvero a parte la mia ombra? E non troverà risposte o quando le troverà saranno fuori tempo massimo, il rumore del gong è arrivato quando era ancora impegnato a portare a termine il task assegnato.

Si salutarono all’ascensore, occhi negli occhi come un duello con i fiori al posto delle pistole. L’esodato mise un piede a bloccare le porte, gli mise una mano sulla spalla e a mezza bocca, quasi sussurrando, gli disse “un giorno, tutto questo niente, sarà tuo”. 

 

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Giovanni Di Muoio
HR Business Partner presso BNL gruppo BNP PARIBAS
Giovanni Di Muoio, esperto di Narrazione d’Impresa, ha maturato una lunga e consolidata esperienza in ambito HR. Attualmente ricopre il ruolo di HR Business Partner in BNL ‒ Gruppo BNP Paribas, in precedenza ha lavorato in SIAE e come libero professionista. Ha collaborato con diverse testate su tematiche HR e ha pubblicato cinque libri di Narrativa. Specializzato in Short Stories ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per la sua attività di scrittore

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