Feedback & Errore

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Feedback & Errore

di Matteo P. Bonistalli

Nel contesto aziendale il feedback conversazionale viene spesso utilizzato per comunicare un elogio, un’osservazione su un determinato comportamento, per capire se un messaggio è stato interpretato in maniera corretta e accettato da tutti nei processi di apprendimento, per scoprire i punti di forza e di debolezza di un’organizzazione o dove agire per migliorare certi aspetti della vita lavorativa.

Eppure il feedback è spesso percepito come uno strumento falsamente gentile di valutazione e giudizio, tendenzialmente centrato sulla persona piuttosto che sulle prestazioni: può essere infatti confuso con il richiamo o il rimprovero che, al contrario, vengono eseguiti con un atteggiamento o un mezzo di comunicazione non appropriati.

Di conseguenza, gli psicologi riconosco che gli effetti del feedback sulle prestazioni sono altamente variabili e non sempre benefici [1]. Ponendo infatti l’attenzione sulle reazioni delle persone alle valutazioni verso le loro prestazioni, si è scoperto che sarebbero più motivati a cambiare comportamento solo se avessero ritenuto il feedback necessario al fine di un miglioramento [2]: è dimostrato che gli individui affrontano un feedback negativo contestandolo, abbassando i propri obiettivi, riducendo l’impegno, ricordando male o reinterpretando il senso del messaggio in una logica del tutto personale, invece che diventare più positivi, impegnandosi nella rivalutazione della propria autostima e motivando gli sforzi per eseguire in futuro un lavoro migliore [3].

La tendenza è quella, appunto, di credere che i successi personali siano causati da fattori interni (le loro capacità, personalità, impegno e attenzione) ed i fallimenti da quelli esterni (responsabilità, aspettative del datore di lavoro, risorse fornite e sfortuna), in cui bias legate a esperienze simili e precedenti, alterano il giudizio dell’individuo sulla recente prestazione.

Eppure il feedback è uno strumento fondamentale degli specialisti del mentorship, del coaching, della supervision, che di fatto sfruttano appieno il suo potenziale: infatti, l’obiettivo principale di questa pratica dovrebbe essere quello di dirigere un cambiamento positivo [4]. Diventa quindi fondamentale capire come padroneggiare questa tecnica e con quali modalità, al fine di ottimizzare al meglio il suo utilizzo e non rischiare di peggiorare quei contesti già compromessi da situazioni di disagio e conflitto.

Basandosi su una recente e interessantissima ricerca, alcuni studiosi hanno proposto di concentrarsi meno sulla diagnosi delle prestazioni passate, ma più sulla progettazione di quelle future: secondo questo studio, sembra che il feedback, sia negativo che positivo, se incentrato sulle azioni future, trovi i destinatari più propensi ad accettarlo e quindi ad agire su di esso [5]. Apparentemente, alcune teorie sulla definizione degli obiettivi seguono la stessa linea di principio, affermando che le persone hanno bisogno di un riscontro, più che una critica, che confronti i loro progressi con gli standard prefissati, in modo da aggiustare i loro sforzi e le loro strategie per proseguire verso quei traguardi [6].

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Il feedback orientato al futuro è dunque caratterizzato dal pensiero prospettico e dalla collaborazione nella generazione di idee, pianificazione di nuove strategie e risoluzione dei problemi: la discussione si concentra sul comportamento futuro e su come rendere il destinatario di successo [5]. La Scala del Feedback potrebbe essere uno strumento in grado di aiutare a inserire questo concetto in un contesto più realistico [7].

Il primo “scalino” rappresenterebbe il “Chiarimento” tra il fornitore e il destinatario del messaggio: a mio avviso, è fondamentale informarsi sul motivo per cui sono stati adottati certi comportamenti o utilizzato una procedura piuttosto che un’altra, al fine di assumere una prospettiva comune da cui proseguire il confronto. In questo modo, il destinatario è chiamato nuovamente a ragionare sulle sue scelte, mentre il fornitore esce dalla dimensione normativa entro la quale ha inserito la sua valutazione, per entrare in quella dell’interlocutore.

I due scalini successivi, “Valorizzazione” e “Perplessità”, definirebbero lo spazio entro il quale avviene la mediazione tra le due parti: si valutano le possibili strategie da seguire, i miglioramenti da apportare, chiarendo appunto le proprie opinioni e lacune, al fine di migliorare le performance del singolo, ma anche dell’azienda nel suo complesso. Il dialogo non è quindi inteso a senso unico ma, al contrario, sia il destinatario che il fornitore sono chiamati a confrontarsi sui loro punti di vista: non raramente, una situazione definita “accidentale” ha scatenato cambiamenti importanti e spesso vantaggiosi per le organizzazioni.

L’ultimo scalino è quello delle “Proposte” in cui si fissano i punti salienti del feedback, inserendo nuove istruzioni, pianificando specifici interventi, confrontandosi con il resto del gruppo di lavoro per definire eventuali percorsi di rinnovamento. Eppure, nonostante le linee guida da seguire siano molteplici e approfondite da più fonti, la realtà dei fatti dimostra che non è semplice esaurire un argomento così complesso con un approccio esclusivamente pragmatico: riferendomi a quanto detto fino a questo punto, ma anche a esperienze passate, personali e altrui, ritengo che in molte realtà aziendali venga fatto spesso un uso smodato e inappropriato del feedback (soprattutto di quello negativo), fra leader e dipendente, ma anche fra dipendente e dipendente, proprio per la complessità dei fattori che lo caratterizzano e, a mio avviso, per come gli individui li percepiscono.

All’interno di questa ottica, ricade sicuramente una delle fonti primarie del feedback, e cioè l’Errore. Siamo infatti abituati, in quel passaggio dalla scuola/università al mondo del lavoro, a essere valutati: tale situazione pone gli individui in uno stato di massima allerta, dove la priorità, che sia passare un esame o svolgere una mansione lavorativa, è appunto evitare di commettere errori. Le parole “errore” e “qualità” sono ritenute normalmente inconciliabili negli schemi tradizionali, rafforzando l’assunto che “il migliore è colui che fa meno errori”.

E se nelle scuole o nelle università può ancora capitare di trovare un professore che si riferisca ad esso come a qualcosa di positivo, non possiamo aspettarci la stessa cosa all’interno di un’azienda, dove i responsabili non sono sempre dei valutatori di professione. Quindi l’errore e il numero di errori commessi, diventano una scorciatoia, un parametro oggettivo di riferimento in quanto “quantificabile” e “attribuibile”, cui basare certe valutazioni sulla condotta del personale [8].

Tuttavia, ci sono esempi di imprese di successo nate da errori [9] che dovrebbero farci riflettere se davvero vada considerato esclusivamente come “quanto contrasta con le regole di una tecnica o scienza, o manca di correttezza, di esattezza (dizionario Treccani)”, oppure che possa nascondere una possibile opportunità per uscire dalle routine a cui siamo ancorati e dunque aprirci verso nuove linee di pensiero, nuovi modi di approcciarsi a un contesto o addirittura verso importanti apprendimenti e innovazioni.

La psicologa Lisabeth Saunders Medlock, PhD riporta nove interessanti e potenziali lezioni che un errore può insegnare a chi si ritrova a commetterlo: I) gli errori percepiti possono aiutarci a capire quale strada vogliamo seguire nella nostra vita; II) gli errori riconosciuti ci insegnano che non siamo perfetti e tuttavia possiamo ancora essere una persona stimata e un contributo per la società; III) riconoscere i nostri errori ci consente di accettare la nostra fallibilità, affrontare le nostre paure e andare avanti con le nostre vite; IV) gli errori percepiti ci aiutano a convivere con le nostre imperfezioni e a continuare a dire la verità; V) gli errori riconosciuti ci insegnano cosa funziona e cosa non funziona quando affrontiamo un particolare problema o inconveniente; VI) accettare i nostri errori ci aiuta a imparare ad assumerci la responsabilità di idee o azioni errate; VII) gli errori percepiti possono rafforzare l’integrità del nostro carattere; VIII) riconoscere i nostri errori ci consente di impegnarci nella nostra vita e di vivere nella misura più ampia possibile; IX) quando riconosciamo apertamente i nostri errori, questo ispira gli altri a fare altrettanto [10].

Quindi, e qui a mio avviso si pone un interessante dilemma su cui i leaders in primis, e poi anche il loro gruppo di lavoro, dovrebbero riflettere, è comprendere se sia vantaggioso confrontarsi su questo tema per depotenziare il significato di errore nella sua accezione più classica e ridefinirlo anche come un’opportunità di sviluppo, di crescita personale, di civiltà all’interno delle proprie organizzazioni, con il supporto, appunto, di feedback mirati e pertinenti, oppure se rimanere all’interno dei soliti canoni interpretativi.

Pertanto, se è vero che l’efficienza e la preparazione di un gruppo si basano anche sulla circolarità delle informazioni al suo interno, riducendo le incertezze e guidando i dipendenti in quelle fasi di problem solving a cui ogni giorno devono individualmente far fronte, è anche vero che, secondo la mia opinione, all’interno di questa ipotesi potremmo inserire una “possibile” cultura dell’errore e del feedback, a cui ogni persona potrà fare riferimento ogni volta avrà bisogno di relazionarsi con gli altri colleghi o da cui attingere le giuste energie psichiche in particolari momenti di stress causati appunto da un confronto o da un momento di cambiamento.

Dal mio personale punto di vista, fondare una leadership sull’onestà intellettuale, quindi ponendo al pari dei nostri meriti e dei nostri successi, anche il riconoscimento dei nostri limiti e dei nostri errori, non dovrebbe essere interpretato come segno di debolezza ma, al contrario, di maturazione e crescita, sia personale che di gruppo, unita a quei principi etici e morali che dovrebbero regolare ogni realtà aziendale. Una strategia che, in questo momento storico e con le dinamiche lavorative odierne, avrà a mio avviso un futuro più longevo e prolifero di altre.

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Fonti Bibliografiche

  1. Kluger, AN, DeNisi, A. (1996). The effects of feedback interventions on performance: A historical review, a meta-analysis, and a preliminary feedback intervention theory. Psychological Bulletin, 119: 254–284.
  2. DeNisi, A. Murphy, K. R. (2017). Performance appraisal and performance management: 100 years of progress? Appl Psychol, 102(3):421-433.
  3. Vancouver, J. B., Tischner, E. C. (2004). The effect of feedback sign on task performance depends on self-concept discrepancies. Appl Psychol, 89(6):1092-8.
  4. Hattie, J., Timperley, H. (2007) The power of feedback. Review of Educational Research, 77: 81–112.
  5. Gnepp, J., Klayman, J., Williamson, I., O., Barlas, S. (2020). The future of feedback: Motivating performance improvement through future-focused feedback. Plos One 15(6): e0234444 
  6. Locke E., A., Latham G., P. (2006). New directions in goal-setting theory. Current Directions in Psychological Science. 15: 265–268
  7. Perkins, D. (2003). King Arthur’s Round Table: How collaborative conversations create smart organizations. Hoboken, NY, John Wiley & Sons. Inc.
  8. Ziliani, F. (2018). Dalla scuola all’azienda: la cultura dell’errore. Personale e Lavoro n. 596.
  9. Lucchini, P., Ziliani, F., Bislenghi, A. (2016). L’ornitorinco sulla scrivania. Elogio dell’errore in azienda. Edizioni Este, Milano
  10. Alpert, J., S., (2018). Do We Learn More from Our Mistakes than from Our Successes? The American Journal of Medicine, Volume 131, P331-332.

 

Matteo Pfeiffer Bonistalli
Vivo in Danimarca e da più di 15 anni mi occupo di servizi e ospitalità. Ho iniziato ad interessarmi alle Risorse Umane con dei corsi sulla leadership, ovviamente in relazione al mio lavoro. Da un anno frequento un corso universitario con indirizzo Psicologia del Lavoro e delle Imprese.

 

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