Cadere
“La gente pensa a noi infinitamente meno di quello che crediamo”
Sandro Veronesi
Sarà che non facciamo più caso al pavimento dove poggiamo i piedi e vaghiamo con la postura di chi sa il fatto suo come a dire ma perché dovrebbe capitare proprio a me. E allora una volta smarcata un’improbabile congiunzione astrale e venuta meno l’ipotesi di un repentino quanto inaspettato allineamento dei pianeti non resta che prendere atto che quello spalmato sulla moquette polverosa sei proprio tu.
Sei caduto come se qualcuno dal palazzo di fronte con un fucile di precisione abbia preso di mira proprio te e nel momento in cui la tua sagoma si è materializzata nel mirino ha premuto il grilletto. C’è sempre qualcuno che ostenta più sicurezza di te oltre che nelle intenzioni anche nei modi di fare e nelle azioni conseguenti. A te spesso tremano le mani quando l’ansia ti riempie la testa di strani pensieri, altri invece non tradiscono nessuna emozione e il killer travestito da Manager è solitamente un professionista di prim’ordine. Il suo possiamo definirlo un lavoro pulito che non lascia indirizzo né traccia. È successo, inutile fasciarsi la testa, non servirebbe a nulla, e poi una testa non ce l’hai più.Qualcuno l’ha vista rovinosamente cadere e scambiandola per un pallone ha iniziato a prenderla a calci. Hai poco di cui lamentarti.
È capitato anche a te di non riuscire a trattenere una risata quando hai visto qualcuno cadere goffamente davanti ai tuoi piedi. Una semplice scivolata, probabilmente scarpe inadatte, poco dopo una pioggia violenta e improvvisa. Quel senso di inadeguatezza che ha radici fanciullesche e ti riporta a quando eri bambino mentre andavi al Circo con in mano lo zucchero filato e il posto in terza fila quello che ti ripara dagli imprevisti di un tuo possibile coinvolgimento nel prossimo numero che si sublima attraverso l’interazione col pubblico. Guardavi i clown, le loro buffe disavventure, quello sguardo triste e malinconico che non hai più dimenticato e quel ridere svociato sulle disgrazie altrui che ti provocava risate sguaiate e subito dopo una tristezza appena mascherata dai cristalli di zucchero appiccicati alle guance come francobolli. Uscendo dal tendone i tuoi pensieri erano tutti come rappresi su quella cartolina di gente vestita in modo approssimativo, la faccia truccata a disegnare falsi sorrisi e lacrime artificiali gonfie come l’invaso di una diga. Uno pensa ai leoni, ai lanciatori di coltelli, ai trapezisti ma l’adrenalina dell’inciampo involontario non ha eguali. Hai appena scoperto che le persone non sono come spesso appaiono. Fingono. A volte lo fanno per istinto di sopravvivenza altre ancora per arrecare danno agli altri. È il gioco della vita che ancora ti sorprende nonostante conosci perfettamente il finale.
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Pensi di essere tu il problema e allora cerchi la pace in una dimensione low cost, raggiungi il mare o qualcosa che vagamente gli somiglia, uno specchio d’acqua dove si riflette un’immagine deformata di quello che sei diventato. E ti ritrovi. Non serve andare fino alla città sacra di Rishikesh, addirittura hai notizie di qualcuno che si è ritrovato alla macchinetta dispensa caffè e altre bevande dai nomi improbabili per cui l’India la immagini come una soluzione estrema, quando le hai proprio tentate tutte. È il tuo modo umano e solitario di ricaricare le batterie.
C’è in quel groviglio di cavi e tubicini una certa di idea di complessità e ci sei dentro fino al collo mentre la testa viaggia in direzione ostinata e contraria come un Super Santos calciato con forza sulla saracinesca di un Garage. Guardi il riverbero della tua immagine sull’acciaio lucido e ti accorgi di aver superato i cinquanta con una manovra azzardata. Avresti potuto fare di più, avresti potuto essere come gli altri e quindi confonderti alla massa fino a scomparire nel gorgo dell’indifferenza.Guadagni l’uscita che in tempi di magra è pur sempre una consolazione.
Nel tuo impermeabile grigio fumo affretti il passo e poi ti volti all’improvviso. Un rumore sordo appena schermato dalla tua ombra di uomo perbene arresta il tuo incedere. Ti volti e quella che vedi è la sagoma di un uomo più grande di te, corporatura massiccia, steso sull’asfalto reso viscido dalla pioggia. Il suo è un lamento a scalare, dapprima urlato nell’attimo esatto dello schianto e poi sempre più flebile dopo aver preso consapevolezza della sua situazione. Lo aiuti a rialzarsi ma senza nemmeno guardarlo in volto. Trovi più indicato e urgente controllare che scarpe indossa. Ti rendi conto? Le scarpe. E lì capisci che è finita, che sei diventato refrattario al dolore degli altri. Così ripensi a tutte le persone che hai visto cadere nel tempo. Vite sparigliate come birilli disposti alla fine dei corridoi del casermone dove hai eletto domicilio.
Chi ha lanciato la palla rimane un mistero, qualche labile indizio qua e là ma nulla che possa condurre alla soluzione del rebus. Una volta, una soltanto, ci sei andato vicino. Te l’hanno venduta come una straordinaria opportunità ma mentre accettavi con riluttanza educata e borghese quel deal dai contorni sfumati il tuo disagio interiore era il campanello d’allarme che segnalava un incendio in corso. L’anima che brucia ha l’odore acre della dimenticanza. Quelle parole avevano un suono distorto ma a te familiare, da persona fuori sintonia sai riconoscere il valore della bellezza salvifica e lì non v’era traccia alcuna di tutto questo, passi che non lasciano impronta. Così mentre salivi su quel treno hai avuto la netta sensazione che in realtà stavi scivolando nel mondo liquido e vischioso dove dimora la nostalgia. Dovrai rialzarti da solo, scrollarti di dosso la polvere degli anni e ricominciare.
Ma un pensiero non ti dà tregua e scava dentro gli anfratti della tua coscienza. Avresti potuto aiutarne di più, molti di più, e non te lo perdoni. Avresti dovuto prestare maggiore attenzione a quelli che sono caduti senza far rumore e rappresentano quella maggioranza silenziosa che ti sei sempre sforzato di raccontare ma erano troppi e le parole che hai speso, con poca generosità a dire il vero, non hanno reso giustizia a quella moltitudine. Avresti dovuto tendere la mano anche a quelli che non lo meritavano perchè se solo avessi provato a salvarne anche uno soltanto probabilmente avresti guadagnato qualche ora di sonno in più. Avresti dovuto provare a rimanere te stesso perchè il vero cambiamento è quella roba lì non quell’inutile chiacchiericcio che fa da sottofondo alla mediocrità.
Guardati adesso. L’inverno ti è scoppiato dentro e ora il tuo corpo freddo potrà sciogliersi solo al tepore di quell’inferno chiamato vita. Ascoltati. Una risata fuori luogo ti modella il viso. Sei proprio tu, il cielo visto da qui sembra non finire mai, da questa posizione puoi osservare le stelle o i razzi sulla luna, hai scoperto che si vedono meglio mantenendo gli occhi chiusi. Per un attimo tieni in stand-by i tuoi pensieri irriverenti, la finta democrazia dei numeri, realizzi solo adesso che chi ti pensa ha perduto. Hai delle qualità anche tu, per esempio Sei così bravo a cadere che sembri nato per rialzarti (cit. Giò Evan). Qualcuno ti ha visto raccogliere ciò che resta del tuo dolore, gettarlo nell’indifferenziato e poi riprendere il cammino.
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Rileggo per caso un articolo di tempo fa…
Mentre da una parte rimango affascinata e quasi imbambolata da tanta prelibatezza letteraria – al punto che potrei mettere in discussione le mie basilari capacità di scrittura – al contempo mi interrogo sulle finalità di questo aulico articolo in un contesto qual è quello del portale risorseumane-hr.
Nulla levando, ripeto, alla bravura di chi scrive.
Se il “cadere” può essere uno dei rischi da tenere in conto nel corso della propria esistenza, è facile dire che le occasioni sono tante e le più disparate.
Ma se si deve contestualizzare il “cadere” in un’ottica prettamente legata alle persone, o risorse umane, in un contesto lavorativo, allora ciò si può riferire principalmente a quelle figure di ruolo con livelli di responsabilità e autonomia superiori al semplice lavoratore che svolge una bassa complessità di mansioni, per lo più operative.
Chi dei due starebbe peggio se dovesse “cadere”? Chi ha da perdere di più, ovviamente.
Entrano quindi in campo l’immagine, il successo, le possibilità economiche, il prestigio, gli onori.
Se poi ci limitiamo al perimetro economico, chiunque può “cadere” allo stesso modo e senza distinzioni di perdite: beni, rispetto, famiglia, relazioni. Solo questo potrebbe essere il grande male, il resto si recupera.
L’ho riletto anche io e non so dirti il perchè, forse il caso o piuttosto quel titolo che significa tutto o niente proprio come hai descritto tu in questa riflessione. Però ci vedo molte attinenze in quel gioco senza vincitori nè vinti in cui come HR siamo impegnati quotidianamente. Personalmente mi affascinano le persone che inciampano, che non vedono gli ostacoli, che cadono rovinosamente a terra e mi piacerebbe farmi trovare lì, tendere la mano, aiutarli ma poi realizzo che potrebbe capitare a me di cadere e mi turba l’idea che non ci sia in realtà nessuno ad aiutarmi, che una certa idea di indifferenza aleggia su di noi e ci rende refrattari. Quindi cadere è soprattutto un invito a rialzarsi e in quel gesto è contemplato anche il fermarsi. Grazie per lo spunto.