Politiche retributive gli obiettivi da perseguire

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Politiche retributive: gli obiettivi da perseguire – parte II

Dai punti cardine ed i 5 target agli impatti concreti.

Trattenere, motivare, attrarre.

di Francesco Puppato

Nel precedente articolo abbiamo visto i punti cardine delle decisioni retributive ed i 5 target fondamentali da perseguire.

Nell’articolo di oggi, addentrandoci nella tematica, passeremo a vedere e ad analizzare gli scopi concreti delle politiche retributive.

Le politiche retributive mirano a svolgere tre ruoli fondamentali e determinanti per il successo aziendale; questi tre ruoli rappresentano funzioni che possono essere riassunte con i seguenti tre verbi:

  • Trattenere (retention);
  • Motivare (engagement);
  • Attrarre (attraction, appeal).

È infatti tramite le sopracitate azioni che le imprese riescono a contraddistinguersi dalla concorrenza, sia in positivo che in negativo.

Come si vedrà in maniera più dettagliata ed approfondita (parte III), una gestione totalmente errata degli strumenti retributivi può portare molteplici problemi, che possono diventare anche patologici per l’azienda; una loro gestione mirata ed efficace, invece, può rappresentare la chiave di volta per fare leva sul clima interno e tramutarlo nel trampolino di lancio verso obiettivi diversamente difficili da raggiungere.

Trattenere (Retention)

La funzione di retention serve per trattenere i migliori talenti e le figure chiave in modo tale da permettere all’aziende di mantenere una posizione da leadership sul mercato o, quantomeno, di non perdere competitività rispetto alle concorrenti.

Essa viene messa in pratica tramite l’attuazione di stipendi tendenzialmente sopra la media mercato, diversamente la risorse potrebbe abbastanza facilmente trovare un’altra collocazione lavorativa presso una diversa azienda.

Alla retribuzione sono solitamente agganciati dei benefit per rendere più saldo il collegamento tra dipendente e posizione occupata, quali il telefono e l’auto aziendale, i buoni pasto ed altre soluzioni affini.

Inoltre, è possibile che il compensation package di queste figure professionali includa anche dei premi legati ai risultati (retribuzione monetaria variabile), visto che il loro operato può incidere notevolmente sul risultato finale conseguito dall’impresa.

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Motivare (Engagement)

Il fattore motivazionale, o engagement, si può definire come l’impegno messo in atto dai dipendenti per non perdere il loro posto di lavoro, cioè quanto ci tengano e quanto questo sia per loro importante.

Aldilà della necessità di avere uno stipendio, a motivare le persone a mantenere un determinato impiego concorrono tutti gli altri fattori già visti in precedenza; più si riesce a creare un ambiente di lavoro favorevole a sviluppare buone relazioni tra colleghi e superiori (a maggior ragione se abbinati all’apprezzamento da parte degli stessi), a vedere ricompensati i propri sforzi tramite dei premi, a maturare la certezza di avere un posto di lavoro sicuro, più sarà possibile notare quello che nel gergo comune viene chiamato “attaccamento alla maglia”.

Pioniere in questo campo fu Toyota, che attraverso il suo modello di gestione TQM (Total Quality Management) prevedeva la partecipazione ed il coinvolgimento di tutti i dipendenti al successo aziendale, contrariamente ad un loro trattamento di tipo fordista in cui gli operai svolgevano mansioni sostanzialmente robotiche nelle catene di montaggio, senza la possibilità di dare il loro apporto (sotto diverse forme e modalità) alla creazione di valore aggiunto.

L’engagement ha impatti molto forti sul clima aziendale e, se vogliamo, può essere considerato un po’ come la cellula madre della cultura organizzativa, in quanto da esso scaturisce l’importanza che i dipendenti attribuiscono al lavorare per uno specifico marchio trasmettendone i valori.

Attrarre (Appeal)

Il ruolo attrattivo, invece, serve all’azienda per riuscire ad essere preferita rispetto ai competitors dalle risorse umane presenti sul mercato del lavoro ed aventi i migliori profili.

Riuscendo in questo, si avrebbe un vantaggio strategico non da poco e ne conseguirebbe un potenziamento competitivo grazie alle competenze della risorsa acquisita.

La funzione di attraction è data sia dalle politiche retributive in tutte le sue componenti (in questo caso i fattori intangibili come la possibilità di carriera, le opportunità di apprendimento, il work-life balance, etc. contano forse più che negli altri) sia dal marchio aziendale (la possibilità di lavorare per un brand rinomato e poter dire di averne appreso la cultura organizzativa sono fattori determinanti); le prime possono però essere uno strumento formante il secondo: tramite delle politiche retributive che riescano a differenziarsi positivamente rispetto agli altri marchi, il brand aziendale acquisisce valore e diventa prestigioso.

Più in generale, con il termine employer branding ci si riferisce alla reputazione che un’azienda si costruisce come datore di lavoro (employer).

L’espressione è stata coniata come variante del più tradizionale customer branding, che si riferisce all’insieme di valori che l’azienda riesce ad associare al proprio marchio (o appunto, brand) nella percezione del consumatore (consumer), attraverso la pubblicità ed altri strumenti di comunicazione.

L’espressione employer branding non va tuttavia confusa con quella di internal branding, rappresentato da un insieme di attività relative al personale già impiegato nell’organizzazione.

Con l’employer branding l’impresa definisce, ma soprattutto comunica, ai potenziali prossimi collaboratori quali siano le caratteristiche che rendono unico e peculiare quel posto di lavoro.

Le caratteristiche proprie di quel posto di lavoro vengono distinte tra strumentali e simboliche: questa distinzione viene applicata anche ai beni fisici in una prospettiva di marketing; se, invece, applicata al posto di lavoro offerto definiscono rispettivamente gli attributi fisici (retribuzione, orario di lavoro, distanza da casa, etc.) e gli attributi simbolici (valore percepito per quel posto di lavoro, prestigio, etc.).

Nella maggior parte dei casi, a parità di retribuzioni e, più in generale, a parità di condizioni fisiche, l’azienda percepita come più prestigiosa o affermata viene scelta dai vari candidati; è per questo che le imprese devono insistere nel concetto di employment advertising, processo attraverso cui l’organizzazione promuove i posti di lavoro disponibili; in questa prospettiva è come se i posti di lavoro fossero dei prodotti e l’azienda dovesse promuoverli grazie a strategie di marketing, al fine di farne percepire il forte valore distintivo.

Così come il customer branding ha lo scopo di conquistare e fidelizzare i clienti, l’employer branding ha lo scopo di acquisire come impiegati i candidati di maggior talento, sottraendoli alla concorrenza, e di fidelizzare quelli già acquisiti.

La reputazione del marchio aziendale è quindi data dal grado di soddisfazione del personale in essa impiegato, il quale a sua volta è dato dai punti precedentemente visti e che dipendono dal compensation package nella sua interezza, ovvero tenendo conto della parte monetaria (sia fissa che variabile) e di quella non monetaria (in tutti i punti in cui essa si sostanzia ed esprime).

L’employer branding esprime dunque la capacità dell’azienda, appunto come intesa come datore di lavoro, di far percepire valore ed importanza attorno ad una posizione lavorativa per la quale essa va sul mercato del lavoro alla ricerca di personale per attirare i migliori professionisti (in un’ottica di appeal), e di fidelizzare le risorse umane di cui già dispone sempre tramite l’internal branding, che verrà successivamente illustrato nell’ambito del clima aziendale, dove le politiche retributive possono affondare in modo migliore le proprie radici per lo specifico ruolo che svolgono.

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Per approfondire:

 

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Francesco Puppato
Vive in Polonia dove ricopre il ruolo di Lead Finance Controlling per una multinazionale del tabacco; laureato in Economia Aziendale, vanta 12 master tra cui uno in "Gestione delle Risorse Umane ed Organizzazione del Lavoro". Parla 4 lingue (italiano, inglese, polacco e francese) ed ha 6 certificazioni, tra cui quella di Coach. Founder di "General Magazine", collabora con diverse riviste.

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