gestire il Conflitto Organizzativo

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Come gestire il Conflitto Organizzativo nell’epoca del Diversity & Inclusion Management

di Valerio Paradisi

Il conflitto è un evento inevitabile della vita organizzativa; esso non deve però essere visto unicamente come un aspetto negativo, infatti se gestito nella giusta maniera può portare al confronto, all’esternazione dei propri problemi e dunque alla crescita personale.

Quando non c’è nessun tipo di conflitto, questo può voler dire che sono presenti problematiche ben più grandi come disinteresse, pensieri negativi covati dentro ecc., e pertanto va stimolato un “conflitto programmato” per incoraggiare opinioni diverse.

Come fare?

Cos’è il conflitto e da dove nasce?

Il conflitto è descritto come quel processo per cui una parte percepisce che i propri interessi sono ostacolati o influenzati negativamente da un’altra parte. 

Dean Tjosvold, professore di management dell’Università di Hong Kong, avverte che il cambiamento genera sempre conflitto, e il conflitto genera sempre cambiamento; Ci sono degli aspetti che contribuiscono a rendere il conflitto organizzativo ineludibile come ad esempio:

  • Cambiamento costante
  • Diversità fra i membri dell’organizzazione
  • Presenza di più gruppi 
  • Diminuzione della comunicazione faccia a faccia
  • Economia globale con un incremento di rapporti interculturali

Da questi elementi possiamo intuire come il conflitto abbia delle origini ancestrali, studiate dalle scienze psicologiche e sociologiche, come la paura per l’estraneo, emozione primaria di base che compare intorno agli 8 mesi di vita; da un punto di vista antropologico questa emozione nasce infatti per proteggere sé stessi dalla possibile minaccia proveniente da chi non si conosce, e che nel corso dello sviluppo, seppur diminuendo di intensità, permane. 

Pertanto risulta evidente, soprattutto in un’ottica di diversity e inclusion, che gli elementi che danno vita al conflitto, possano e debbano essere trasformati in un’occasione di arricchimento e crescita per tutti gli attori che ruotano intorno al conflitto organizzativo spostando il focus del diverbio da una situazione win-lose ad una win-win, mostrando i benefici che si possono trarre dalle occasioni di cambiamento e diversità.

Bisogna tenere a mente che ogni conflitto ha sempre un inizio e una fine; tuttavia dobbiamo distinguere fra 2 macro-gruppi di finalità di conflitto:

  • Conflitto patologico —> il quale minaccia gli interessi dell’organizzazione, porta a competizione, benefici del singolo, clima chiuso, e porta ad attribuire agli altri la responsabilità dei problemi esistenti
  • Conflitto funzionale —> il quale invece promuove gli interessi dell’organizzazione portando a cooperazione, coesione, benefici del gruppo, clima aperto e comunicazione di supporto.

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Il conflitto è sempre uguale?

Ovviamente, essendo molteplici le cause che possono generare il conflitto, molteplici sono le tipologie, ognuna con differenze peculiari che le caratterizzano; possiamo citare 3 tipologie generali in cui ricadono i singoli conflitti organizzativi:

  • Conflitto di personalità —> contrasto interpersonale basato su personali antipatie, disaccordi e/o modi di essere differenti. Come abbiamo già visto in un precedente articolo (cfr. L’importanza dell’ascolto attivo per contrastare le barriere di comunicazione | Valerio Paradisi (risorseumane-hr.it)) questo tipo di conflitto è sicuramente uno dei più comuni proprio per via della natura psicologica dell’uomo che lo porta a confrontarsi con i propri simili, talvolta con risvolti negativi.
  • Conflitto tra gruppi di lavoro —> rappresenta una comune minaccia alla competitività dell’organizzazione; infatti, questa tipologia può essere particolarmente dannosa soprattutto perché è in grado di coinvolgere molteplici attori organizzativi, inficiando notevolmente la produttività dell’azienda. Inoltre è bene considerare che anche un’eccessiva coesione fra i membri di un team può essere un potenziale rischio circa l’esplosione del conflitto; è infatti noto come ciò possa portare al cosiddetto Groupthinking ossia il “pensare di gruppo”, per cui gli individui non si sentono più tali, quindi menti libere e pensanti, ma unicamente parte di un team che si muove, pensa e decide all’unisono, anche quando si pensa dentro di sé diversamente dal gruppo (fenomeno che deriva dal paradigma della dissonanza cognitiva); va da sé che quando anche un solo elemento mette in dubbio la correttezza del pensiero del gruppo, ne deriva un conflitto organizzativo.
  • Conflitto interculturale —> questo tipo di conflitto che sta oggi crescendo esponenzialmente per via della globalizzazione sempre più presente nelle aziende, poggia le sue radici sul fenomeno del pregiudizio etnico, definito come “l’atteggiamento negativo verso un target, indipendentemente dalla conoscenza o meno, solo per la sua appartenenza a un particolare gruppo sociale” in questo caso verso individui appartenenti a un background socioculturale diverso dal proprio, che può sfociare anche in veri e propri episodi di razzismo.

Quali possono essere le modalità di intervento per gestire i conflitti?

Le pratiche che i manager possono applicare quando si trovano a gestire collaboratori che soffrono di conflitti di personalità sono:

  • condurre indagini e documentare il conflitto
  • tentare una risoluzione informale del conflitto facendo comunicare direttamente le parti attraverso il noto metodo dialettico che consiste nello sviluppare un dibattito tra punti di vista opposti per una migliore comprensione del problema.
  • in caso di conflitti difficili, fare riferimento a esperti per tentare di risolvere formalmente o tramite provvedimenti di altra natura

Per migliorare il conflitto tra gruppi di lavoro è stata invece proposta l’ipotesi di contatto secondo cui maggiore è il grado di interazione tra i membri di gruppi diversi, minore sarà il numero di conflitti che essi sperimentano; per fare ciò è possibile proporre programmi di team building, role-playing, simulazioni, oppure formare gruppi interfunzionali.

Infine per moderare il conflitto interculturale è bene ricorrere invece ad appositi consulenti internazionali e costruire relazioni interculturali attraverso corsi formativi mirati, per evitare di sfociare in conflitti patologici. 

Per concludere, è bene citare anche l’emergente figura del Diversity & Disability manager che può venire in aiuto in tutte queste circostanze in quanto permette di favorire l’inclusione sia di soggetti con disabilità, che talvolta possono essere isolati ed esclusi proprio a causa dell’handicap di cui sono portatori, sia di tutte quelle altre persone che per svariate ragioni vengono percepite come diverse. E’ possibile infatti strutturare gruppi interculturali, anche grazie alle nuove forme di lavoro a distanza che a seguito dell’epidemia da Coronavirus sono sempre più in via di sviluppo, che se attentamente seguiti e gestiti possono ridurre di molto la comparsa di conflitti organizzativi patologici, promuovendo al contempo quelli funzionali.

 

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Valerio Paradisi
Sono un laureando in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni con una forte vocazione per il mondo HR. Il mercato odierno crea sempre più pressioni sui lavoratori, e per questo sono convinto che ci sia bisogno di un nuovo approccio alla Gestione delle Risorse Umane, in grado sia di creare valore e vantaggio competitivo per l'azienda, sia di favorire contemporaneamente un clima di cooperazione nei collaboratori, generando in essi commitment attraverso politiche volte alla crescita personale e professionale. Ho molte ambizioni, ricerco costantemente opportunità di apprendimento e desidero acquisire conoscenze e competenze per poter rendere l'organizzazione un sistema che valorizzi il dipendente, portandolo all'autorealizzazione e dandogli l'opportunità di sviluppare il proprio potenziale che influenzerà positivamente il rendimento dell'azienda nella quale esso opera. Il Capitale Umano non può essere imitato né comprato, pertanto bisogna guardare alle Risorse Umane come delle "risorse" da coltivare, curare e far sbocciare.

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