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La sindrome da birra calda
”Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze”.
Da “Itaca” di Costantino Kavafis
Tutte le volte che mi capita di pronunciare la parola Responsabile mi sento palesemente a disagio. Cerco addirittura di evitarla come espressione, la dico a mezza bocca sperando che l’interlocutore non capisca. La mischio insieme ad altre parole altisonanti così da renderla quasi inoffensiva. Il mio è un continuo disinnescare ordigni potenzialmente letali. Sono l’artificiere e come ogni artificiere che si rispetti non so mai cosa aspettarmi dal domani.
Qualcuno mosso a compassione dopo il mio quinto sbadiglio mi chiede un parere, naturalmente privo di qualsiasi vincolo, sulla scelta del Responsabile. Siamo dentro una riunione fumosa, non so nemmeno io come ci sono entrato, certe cose accadono all’insaputa come il tizio che dice di avere la disponibilità di un appartamento con vista sui Fori Imperiali ma che non riesce a ricordare come ci è finito dentro. Dico la mia e mi accorgo subito dell’imbarazzo che ho generato. Invece di farmene una colpa provo addirittura un certo autocompiacimento nell’aver interrotto quell’inutile parlarsi addosso che possiamo identificare come la Sindrome da Birra Calda che ormai è radicata in quasi tutte le funzioni HR delle Aziende.
Provate a fare un esperimento. Togliete penne e taccuini dal tavolo e sostituiteli con una pinta di birra quando magari c’è da decidere qualcosa. Il tempo passa inesorabile, l’obiettivo ci appare palesemente irraggiungibile, l’ideale sarebbe quello di arrivare ad una decisione condivisa, per realizzarlo bisogna ascoltare il contributo di tutti restando concentrati perché la scelta di un Responsabile è già di per sè una Responsabilità. Ora provate a sorseggiare la vostra birra e scoprirete, vostro malgrado, che quella brodaglia calda è ormai imbevibile ma soprattutto che la scelta del Responsabile, ovviamente raffazzonata, è maturata negli ultimi tre minuti rendendo inutili i precedenti cinquanta che avreste potuto impiegare a sorseggiare la vostra birra con un’utilità marginale senza dubbio superiore.
Bruciamo il tempo sulle nostre scomode poltrone in pellet e di ciò che rimane non sappiamo che farcene. Da tempo abbiamo smesso di credere alle favole per cui guardiamo con una certa circospezione quelli che ci ricordano l’importanza di rinascere dalle ceneri. Sarà pur vero che si vive una volta sola ma conosco persone, accumulatori seriali di sconfitte e smarrimenti, che ogni giorno che passa muoiono un po’ ed è proprio quel po’ che non riusciamo a quantificare. Soprattutto sarebbe ingeneroso addossare unicamente alla loro indole poco resiliente questo senso di smarrimento.
Frequentando le Organizzazioni mi sono reso conto dopo anni di osservazione che quelli che hanno ruoli di Responsabilità spesso sono i portabandiera dell’incoerenza. Dicono di voler fare squadra e si dimostrano esclusivi inteso come il contrario di inclusivi. Preferiscono scegliersi la forza lavoro con la quale poter esprimere il loro modo di esercitare la Leadership. E’ una strategia che consente di ottenere il maggior risultato col minimo sforzo.
Scelgo deliberatamente di circondarmi di persone che o la pensano come me o sono facilmente malleabili, la loro è una resilienza di comodo si adattano non al contesto ma a chi esercita potere sperando di ottenere benefici di natura utilitaristica.
Sarebbe facile scomodare Pareto e il suo teorema ma è quello che accade in molte realtà che si dimostrano poco avvezze all’inclusione. Il vero grande e irrisolto problema è che questo 80% ignorato per scelta o per convenienza rappresenta in ogni caso la maggior parte della forza lavoro che finisce, giocoforza, per sbilanciare il margine di competitività dell’Azienda. E questo aspetto mi fa oltremodo riflettere anche su un’altra circostanza: se riesco, sia io come Azienda che in qualità di Responsabile, a raggiungere i miei obiettivi concentrandomi sulla capacità di delivery del mio 20%, il mio amato Golden Circle, dovrei interrogarmi se davvero il restante 80% è funzionale agli obiettivi che mi sono prefisso e se addirittura potrei farne a meno in una logica di saving. Ho scientemente alzato l’asticella dell’approssimazione al solo fine di essere provocatorio consapevole del fatto che solo l’idea che tutto questo si possa tradurre in politiche di macelleria sociale mi fa rabbrividire.
Resta però un tema aperto quello della scelta della classe Dirigente sul quale la funzione HR paga anni di immobilismo avendo abdicato il meccanismo della scelta dei ruoli di Responsabilità a un Business il più delle volte miope ed espressione unica del fare.
Ci siamo follemente innamorati dei praticoni di turno attribuendo loro capacità soprannaturali con l’assunto che se so fare dieci pratiche o se riesco a sollevare dieci faldoni ho anche le capacità manageriali per poter gestire una squadra. Abbiamo sposato l’etimologia della parola Responsabile intesa come abilità nel fornire risposte che in periodi di grande incertezza può rappresentare un plus. Poco ci siamo soffermati sul contenuto delle risposte.
Abbiamo dato importanza al gesto e lo abbiamo premiato facendolo diventare modello di riferimento. Ancora una volta, l’ennesima, la forma ha trionfato sulla sostanza. Il risultato è un proliferare di Responsabili che sfoggiano sicurezze da pornodivi ma che di fronte alle prime difficoltà vanno in crisi perchè alzare la testa, annusare il mondo, coglierne i cambiamenti non rientra nella loro mission. E oggi ne paghiamo drammaticamente le conseguenze. L’alibi dietro il quale ci nascondiamo è che tutto sommato non mandiamo missili sulla luna e non facciamo operazioni a cuore aperto per cui tutto è possibile e tutto si impara. Gli si concede del tempo per maturare e dall’altra parte gli viene ripetuto che non c’è tempo da perdere.
La priorità, oggi più di ieri, non è solo quella di contribuire a scegliere dei manager migliori ma anche quella di avere il coraggio di ammettere che su alcune persone abbiamo preso delle enormi cantonate e quindi è giusto (aggiungerei etico) avvicendarli su ruoli dove magari hanno la possibilità di esprimersi in maniera più compiuta senza l’insostenibile peso di far crescere in maniera armonica la propria squadra, competenza oggi fondamentale e non negoziabile. Questa asimmetria organizzativa che poi si traduce in diseguaglianze che incacreniscono anche i buoni propositi sono il terreno di coltura dove prolifera quel senso di precarietà che pervade le Organizzazioni.
Molto di frequente scopriamo (meravigliandoci) che nel momento in cui facciamo ricorso a personale somministrato o a tempo determinato il livello di produttività di quella unità produttiva magicamente sale al punto che dopo un breve lasso di tempo il contributo del personale precario per definizione diventa indispensabile e quindi strutturale. Con questa logica emergenziale, espressione di breve periodo, non andiamo da nessuna parte per cui la priorità non deve più tradursi nell’aumentare il livello di precarietà delle Organizzazioni ma accompagnare le persone (di quel famoso 80%) ad avere un livello di produttività e aggiungerei di inclusione maggiore di quello che esprimono.
Se il capo è un ostacolo a questo processo di cambiamento va rimosso e non dobbiamo farne un dramma come direbbe Lucio Battisti nella sua “Prendila così”. Allo stesso modo se una persona fa fatica a comprendere il contesto e anzi si pone in una situazione di inerzia che spesso produce emulazione, bisogna anche in questo caso agire tempestivamente nel pieno rispetto delle Normative vigenti ma ponendo l’accento sul tema del sinallagma contrattuale che nel momento in cui non si realizza deve produrre decisioni esemplari.
Non vuole essere la mia una deriva di tipo autoritario però il tema dell’inversione di tendenza passa anche attraverso cambi repentini di rotta. Se sapremo scegliere con oculatezza i timonieri più adatti la nostra nave approderà a Itaca e dobbiamo augurarci – come scriveva il grande poeta Costantino Kavafis – che la strada sia davvero lunga perché le scorciatoie hanno spesso prodotto disastri.
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Ciao Giovanni complimenti per la franchezza con cui tratti temi scomodi. Si avverte bene che quanto esprimi è frutto di esperienza vissuta e non sempre con gioia . Segnalerei il potenziale conflitto di interessi tra la committenza e i contenuti che emergono in formazione. Resta una questione aperta visto che spesso chi ti assume è lo stesso soggetto che definisci esclusivo ,tanto per usare una parola cluster .Grazie del contributo!